venerdì 9 marzo 2012

Ghost Rider: Spirito di Vendetta. L'eroe centauro della Marvel è tornato


Dopo aver affrontato demoni di ogni specie in sella alla sua potentissima motocicletta nel film datato 2007, il famigerato Jhonny Blaze è tornato sulla scena…e soprattutto sugli schermi!
Dal 23 Marzo uscirà infatti al cinema l’attesissimo sequel di Ghost Rider, ovviamente interpretato ancora da un Nicholas Cage in una forma strepitosa ed accompagnato dalla sua inseparabile compagna a due ruote.
In questo nuovo capitolo della saga, Johnny è ancora alle prese con la maledizione del cacciatore di taglie del diavolo, ma dopo l'incontro con il leader di un gruppo di monaci ribelli (Idris d’Elba), sembra disposto a tutto pur di salvare un ragazzino dalle grinfie del diavolo, e liberarsi una volta per tutte dalla maledizione che lo perseguita.
L’italiana e vivace Violante Placido prende il posto dell’altrettanto bellissima Eva Mendes che ci aveva deliziato nel primo capitolo, interpretando il ruolo di Nadya, madre del piccolo Danny, oggetto del desiderio del demone Roarke.
Ghost Rider: Spirito di Vendetta rappresenta così ancor più spettacolarmente del primo film il centauro eroe Marvel, attraverso sequenze mozzafiato e riprese sempre dinamiche e convincenti; già dal trailer (che troverete qui sotto!) si capisce che dal primo minuto del film ci si ritroverà subito proiettati all’interno di una storia dalla narrazione fittissima e ricca di colpi di scena. La regia, passata da Mark Steven Johnson alla coppia Neveldine-Taylor (autori dei due action cult Crank, e di Gamer), risulta infatti brillante e con un’impeccabile resa scenica che punta forse più a valorizzare l’aspetto horror della storia puntando anche ad un  maggior coinvolgimento emotivo



Da segnalare inoltre l’inaspettato cameo di Christopher Lambert nei panni di uno dei monaci e l’ottima interpretazione di Idris Elba come loro capo.
Il film è (ovviamente!) disponibile anche in 3D.


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martedì 6 marzo 2012

Posti in piedi in paradiso: stiamo vivendo o sopravvivendo?

L’Italia dei disastrati. Nel nuovo film di Carlo Verdone si racconta un Paese sospinto nel purgatorio del 20 del mese, quando non c’è più un euro e si fatica ad andare avanti, rinunciando perfino alla carne. Il governo Monti, sobrio ma composto di gente facoltosa, fatica ad accorgersene, invece il sessantenne comico romano sa benissimo che si vive male, che molti vivono male. Ecco, allora, l’idea di piazzare nel suo “Posti in piedi in Paradiso”, al cinema dal 2 marzo in 650 copie by Filmauro, tre padri separati ridotti in miseria da scelte professionali sbagliate, da vizi e leggerezze, anche dalle pretese delle loro mogli alla voce “alimenti”.



«Questi padri separati sono un’emergenza sociale, rappresentano una nuova categoria di poveri» sostiene Verdone. Giovedì sera, all’anteprima a inviti all’Auditorium, il regista s’è ritrovato seduto accanto il ministro Corrado Passera. Il quale, alla fine del film, avrebbe se non altro riconosciuto che le cose stanno proprio così. Il giorno dopo, incoraggiato dai primi commenti positivi, Verdone spiega: «Penso che si debba fare cinema, anche di intrattenimento, guardando alla nostra realtà. La sfida del film è semplice: raccontare alcuni aspetti tutt’altro che comici di questi anni italiani, ma cogliendo dettagli e situazioni utili a portare la storia nel campo della commedia».

In effetti la sfida c’è. Gli incassi record delle nostre commedie, spesso fatue ed evanescenti, sembrano andare da tutt’altra parte. Sul film di Verdone, peraltro, gravano le attese spasmodiche del produttore Aurelio De Laurentiis, reduce da un’infilata di insuccessi. Eppure “Posti in piedi in Paradiso” ha le carte in regola per piacere al grande pubblico: fa ridere, anche molto in certi momenti, senza rinunciare, in linea con un certo ragionevole pessimismo del suo autore, per quanto ammordibito nel finale di speranza, a dirci che il riscatto non può che essere individuale, perché la politica ha smesso di dare speranze. La controprova? Rivela Verdone esibendo il suo romanesco migliore: «Lo sa che mi ha detto il fioraio ieri? ‘Sti tecnici ce stanno a ridurre sul lastrico, ma Monti me piace, perché nun ride. Infatti nun ce sta niente da ride».

Del resto la frase che più risuona nel film è: «Ma che vita da miserabili!». Sottratti ai loro abituali standard di vita, Ulisse Diamanti, Fulvio Brignola e Domenico Segato, cioè Verdone, Pierfrancesco Favino e Marco Giallini, si ritrovano a mettere insieme 250 euro a testa per sopravvivere in un triste appartamento scosso più volte al giorno dal passaggio della metropolitana. Ulisse era un discografico di punta, ma ora vende vinili vintage e memorabilia rock; Fulvio un critico cinematografico stimato, ma ora si occupa di gossip, per la serie «chi c’era alla festa, chi non c’era, chi se l’è fatta, chi si è rifatta»; Domenico un ricco imprenditore in campo immobiliare, ma ora, diviso tra due famiglie, trangugia pillole blu per soddisfare ricche signore attempate.

Spiega Verdone: «Lo so, sulla carta il soggetto poteva sembrare poco adatto al sorriso. Eppure la convivenza forzata dei tre, costretti a dividere quel modesto appartamento, mette in risalto le differenze caratteriali, le tipologie maschili. Sono circondato da amiche disarmate di fronte a uomini magari di valore, ma perlopiù fragili, poco affidabili, mai autorevoli, che decidono di non decidere mai». Donne come la bella cardiologa, svampita e generosa, terrorizzata dalla parola “incomunicabilità”, che Micaela Ramazzotti sullo schermo incarna con distratta sensualità.

Nel film ce n’è per tutti, sul piano dello sfottò, e naturalmente i cine-giornalisti si divertiranno a cogliere i riferimenti al loro mondo nel ritratto impietoso di Fulvio. Uno che sfrutta il numero di cellulare di Gabriele Muccino per rimorchiare un’aspirante attricetta assai disinvolta, che si butta avidamente sui panini alle conferenze stampa in puro gusto “Cafonal”, uno che vede Orson Welles in tv ma si sente come in una commedia di De Filippo.

giovedì 1 marzo 2012

Guardare oltre i limiti (del cinema italiano)

Il successo al botteghino del film di Fausto Brizzi Com’è bello far l’amore è un’ulteriore conferma che i film italiani di maggior successo appartengono tutti allo stesso genere, la commedia. Pur differenziandosi dai famigerati panettoni, caldarroste matrimoniali intrise di volgarità gratuita che finalmente il pubblico sembra gradire sempre meno, e lo dimostrano i risultati deludenti di film come Finalmente la felicità di Leonardo Pieraccioni e Vacanze a Cortina della premiata ditta Neri Parenti, è ancora presto per gridare al cambiamento, alla fine di un certo tipo di commedie in favore di altre più garbate e sofisticate.


Sorvolando sulla scelta della terza dimensione, del tutto inutile per una commedia se non per far lievitare il prezzo del biglietto, restano infatti ancora grandi le distanze tra la nuova commedia italiana e quella dei tempi d’oro, capolavori di comicità e, nello stesso tempo, drammaticità, capaci di farti ridere a crepapelle ma che riuscivano a trasmetterti qualcosa, ti rimanevano dentro senza lasciarti più. I nuovi comici italiani propongono personaggi più evoluti e dinamici rispetto alla ripetizione ossessiva degli stereotipi dell’italiano medio messi in scena per oltre due decenni da Boldi e De Sica ma, a parte rare eccezioni, spesso scadono troppo nel macchiettismo e nel caricaturale.

Non aspireranno ad entrare nella storia del cinema o ad oltrepassare i confini nazionali ma il collage di banalità, gag demenziali, dialoghi non particolarmente vividi ed originali, e happy-end scontati di una certa commedia in Italia continua a piacere al pubblico, che vuole e cerca un cinema d’evasione, e a tenere a galla l’industria cinematografica nazionale, ormai pilotata da logiche di mercato invadenti che inducono a fare cinema un po` più “semplice” e di rapido consumo.

Che non è per forza di cose da buttare se non fosse che ormai la nostra cinematografia dipende sempre più da certi prodotti relegando ai margini del circuito cinematografico i film d’autore che, contrariamente a quanto avviene all’estero, proprio per le chiusure del mercato, non sempre godono di grandi distribuzioni. Ma il cinema non è solo una questione di business e lo sanno bene due cineasti non allineati come Paolo e Vittorio Taviani, vincitori dell’Orso d’Oro all’ultimo Festival di Berlino con Cesare deve morire, un film low budget interamente girato in un carcere e centrato su uno spettacolo teatrale dei detenuti di Rebibbia sotto la supervisione del regista teatrale del carcere Fabio Cavalli. Un grande esempio di cinema di qualità capace di sfornare un prodotto che non è fine a se stesso, slegato dalle logiche produttive di un’industria che tende sempre più a massificare il grande pubblico, quello che in termini di ricavi conta davvero.

Come ammettono gli stessi fratelli Taviani in conferenza stampa di presentazione del film, nelle sale da venerdì scorso, “le società cinematografiche di casa nostra, a quest`opera così particolare non hanno creduto. Tanti hanno visto il nostro lavoro, nessuno lo voleva: Nanni Moretti invece ci ha detto subito sì". E il film vola anche all’estero. Non c`e` che dire, una bella lezione per il cinema italiano.

Cinemonitor.it