lunedì 23 gennaio 2012

ACAB: non solo manganelli?

Chissà se è vero che “ACAB. All Cops Are Bastards” «toglie la museruola al rottweiler che è in noi». Lo sostiene Carlo Bonini, l’autore del libro da cui Stefano Sollima ha tratto l’omonimo film che esce oggi in 300 copie, targato Raicinema & Cattleya. I tre tosti celerini della storia sarebbero lo specchio deformante di una società esasperata, intinta nell’odio, dove prosperano razzismo, miseria, violenza tribale e frustrazione sociale. Tuttavia a “ACAB”, a sentire il regista delle due serie tv “Romanzo criminale”, si propone anche «come un film di genere intelligente, un poliziesco alla maniera degli anni Settanta».


Di sicuro lo spettacolo è adrenalinico, allucinato, gasato, senti quasi le ossa rompersi sotto l’urto dei manganelli; e tuttavia il punto di vista non vuole essere fazioso, ideologico, criminalizzante. I celerini sono narrati con piglio realistico e insieme epico, quasi fossero neo-gladiatori al servizio di un antico codice d’onore. Sotto processo per aver picchiato troppo,  uno dei tre scandisce infatti al giudice: «Prima di decidere chi sono gli innocenti e i colpevoli, dovrebbe almeno chiedersi come funziona il lavoro della Celere. Lei pensa che spaccare la faccia alla gente sia una cosa che mi piace?». 
Ricorderete: il 16 ottobre scorso la scritta verniciata dai black bloc esultanti sul retro del furgone dei Carabinieri che andava a fuoco a San Giovanni recitava proprio ACAB, ossia «All Cops Are Bastards», tutti gli sbirri sono bastardi, minaccioso acronimo coniato nel 1979 dalla rock band “The 4 Skins” e da allora diventato slogan dei cosiddetti movimenti antagonisti, oltre che degli ultrà di calcio. Eccoli, allora, questi “bastardi”. Filippo Nigro, Marco Giallini e Piefrancesco Favino avanzano nella luce livida di una caserma, pronti a menare le mani. Sono Negro, Mazinga e Cobra, veterani del VII Nucleo mobile, lo stesso della “macelleria messicana” a Genova. Anche se i fatti atroci del 2001 restano sullo sfondo, come un evento straordinario, col suo carico di vergogna e discredito. Animati da uno spirito di corpo fondato sulla fratellanza, i tre prendono sotto protezione un  “coattello” romano cresciuto sulla strada, Adriano, cioè Domenico Diele. Ma alla fine qualcosa non va per il verso giusto: una feroce spedizione punitiva smuoverà la coscienza di uno di loro.     
Costruito attorno a eventi reali, dall’assassinio di Giovanna Reggiani con conseguente caccia al romeno alle sommosse romane provocate dalla morte “accidentale” del tifoso Gabriele Sandri, il film non ha ricevuto il sostegno della Polizia, ma neanche un chiaro boicottaggio. I produttori parlano di «corretta distanza». Certo non va giù leggero Sollima nel tratteggiare le “gesta” di questi guerrieri in divisa blu. Cobra vive nel culto del Duce, Mazinga ha un figlio skinhead, Negro sta separandosi dalla moglie africana. Si sentono Leonida alle Termopili, nuovi centurioni, si divertono a intonare «Celerino, figlio di puttana». Tagliato con l’accetta sul piano drammaturgico e bombardato dal rock dei Mokadelic, il film tira in ballo Alemanno e la sua politica disinvolta sui temi dell’immigrazione; salvo poi tornare nell’epilogo al peccato originale. Mentre aspettano le orde di ultrà incappucciati attorno allo stadio Olimpico, i tre si ritrovano in piazzale Diaz. «Come si chiamava la scuola di Genova? Mi sa che stasera paghiamo il conto» fa Mazinga. Manca solo il fermo immagine alla “Butch Cassidy”.

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