mercoledì 1 dicembre 2010

Adam Resurrected: superare il dramma




Ispirato all’omonimo romanzo di Yomar Kaniuk del 1968, Adam Resurrected diventa finalmente film, a distanza di più di 40 anni dall’uscita del libro, per mano di Paul Schrader, mitico sceneggiatore di Taxi Driver e Toro Scatenato, per citarne un paio. “Finalmente” perché già diversi registi avevano fallito nell’intento di portare a compimento una sceneggiatura degna di tal nome (addirittura Orson Welles fu scelto per il ruolo di protagonista in uno di questi tentativi), che sapesse riprendere il sottile filo, graffiante e sadico, con cui il controverso romanzo aveva positivamente impressionato critici e scettici.
 Il difficile tema del superamento, o almeno del suo tentativo, di una tragedia delle dimensioni dell’Olocausto è un ostacolo impervio da affrontare, forse impossibile. Tanti sono stati i dibattiti di stampo socio-psicologico con l’intento di definire se fosse possibile anche soltanto immaginare il dolore provato dai deportati nei campi di concentramento, figuriamoci raccontarlo. E ancor di più superarlo. I fantasmi, le paure, i drammi interiori che alcuni personaggi si portano dietro sono ferite che difficilmente un istituto mentale per i sopravvissuti aiuta a rimarginare. 
Adam Stein, interpretato in maniera impressionante da Jeff Goldblum, è proprio uno di questi sopravvissuti, ed il suo percorso di tentata riabilitazione psicologica si alterna fra la clinica dove è in osservazione e i flashback del campo di concentramento dove era rinchiuso e dove faceva letteralmente da”cane” per le maniacali fantasie di stampo “imperiale” del comandante Klein, Willem Dafoe anche lui in ottima forma. Adam prima della guerra era un artista, dirigeva un personale ed originale, visti i tempi, one man show in una specie di circo di Berlino (ironia della sorte una delle improvvisate “cavie” per i suoi giochetti una sera fu proprio il comandante); poi la guerra, la deportazione, il dramma. Il vedersi strappare via la famiglia da davanti agli occhi, mentre lui è costretto a fare da malinconica colonna sonora con il violino nel tragitto della moglie e della figlia verso la morte, lo segna per sempre. Si trova da solo e ci si troverà fin quando, proprio nell’istituto mentale, non incontra un altro “cane” come fu lui in passato; un “progetto particolare” del medico che lo teneva in cura: un ragazzino tenuto legato in una stanza segreta costretto a vivere proprio come Adam aveva fatto. I due riescono miracolosamente ad avvicinarsi ed iniziano insieme un percorso di crescita e di redenzione, che porterà entrambi a prendere coscienza della reale necessità, per se stessi, di uscire dalla situazione di chiusura mentale e psicologica che li accompagnava da chissà quanto tempo.
Dal punto di vista cinematografico colpisce l’uso dominante della tonalità del bianco, come a voler indicare che il barlume di speranza è vivo anche in condizioni di precaria stabilità mentale. Tale scelta cromatica è però abissata nei flashback oscuri delle notti nel campo di concentramento, dove l’ombra della paura e della disperazione ci aiutano a ristabilire il senso tragico predominante. La luce dunque non è ben chiaro se indichi follia o speranza ed è proprio su questa incertezza che va collocato il punto sul quale abilmente il regista gioca; le lacrime che il protagonista stenta a nascondere, i ripetuti scontri psicologici con gli infermieri e gli altri pazienti, la rabbia mista a compassione che trapela dal rapporto col giovane nuovo amico sono alcuni dei congegni narrativi che hanno permesso a Paul Schrader di portare a termine l’opera in maniera intelligente e fornendo interessanti spunti introspettivi.
La pellicola, ancora in cerca di definitiva distribuzione in Italia, sarà in programmazione in versione doppiata in italiano al cinema Aquila di Roma, dal 3 al 16 dicembre.
Marco Napolitano

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